caccia all'alba (maupassant)

Parole e ali...

caccia all'alba (maupassant)

Messaggioda anna » 7 dic 2009, 23:14


Era una di quelle notti in cui la terra sembra morta di freddo. L'aria diaccia diventa resistente, palpabile, tanto fa male; non un soffio la agita; morde, penetra, dissecca, uccide gli alberi, le piante, gli insetti, perfino i piccoli uccelli, che cadono dai rami sulla terra dura, e diventano, sotto il morso del freddo, anch'essi duri come la terra. La luna, al suo ultimo quarto, inclinata su di un lato, pallidissima, appariva morente in mezzo allo spazio, e così debole che pareva non potesse più andarsene; restava lassù, anche essa paralizzata dal rigore del gelo. Diffondeva una luce triste sul mondo, quella luce morente e scialba che ogni mese, alla fine della sua resurrezione, essa ci invia. Karl ed io andavamo gomito a gomito, curvi, le mani nelle tasche e il fucile sotto il braccio. Le scarpe, avviluppate nella lana per poter camminare nella palude diaccia senza scivolare, non facevano alcun rumore. lo rimiravo la nuvoletta bianca prodotta dal fiato dei nostri cani. In breve, fummo sulla riva della palude, e ci inoltrammo in uno dei passaggi tra i canneti secchi che si aprivano in quella foresta nana. I nostri gomiti, sfiorando le lunghe foglie a nastro, lasciavano dietro di noi un lieve fruscio; come non mai mi sentivo preso dal turbamento strano e possente che suscitano in me le paludi.
A un tratto, a una svolta di uno dei passaggi, scorsi la capanna di ghiaccio, costruita per metterci al riparo. Vi entrai e poiché avevamo ancora quasi un' ora per aspettare il risveglio degli uccelli migranti, mi avvolsi nella mia coperta per cercare di riscaldarmi.

Coricato sulla schiena, mi misi a guardare la luna deformata, la quale, attraverso le pareti vagamente trasparenti
di quella casa polare, pareva avere quattro corni. Ma il freddo della palude gelata, il freddo di quelle pareti, il freddo venuto giù dal firmamento, mi pervase tosto in modo così terribile, che mi misi a tossire. Mio cugino Karl fu preso da inquietudine: - Tanto peggio se oggi non ammazzeremo molta selvaggina - disse. - Non voglio che tu prenda un'infreddatura. Accenderemo il fuoco. E diede ordine al guardiano di tagliare alcune canne.
Ne fu fatto un mucchio in mezzo alla nostra capanna, perforata in cima per lasciar sfuggire il fumo; e quando la fiamma rossa salì lungo le chiare pareti di cristallo, queste si misero a fondere, dolcemente, come se sudassero. Karl, rimasto fuori, mi gridò: - Vieni a vedere!
Uscii e fui preso da un grande stupore. La nostra capanna, a forma di cono, aveva l'aria di un mostruoso diamante dal cuore di fuoco, d'improvviso spinto sull'acqua gelata della palude; e dentro si vedevano due forme fantastiche: quelle dei nostri cani che si scaldavano.
Un grido strano, un grido smarrito, vagante, passò d'un tratto sulle nostre teste. L'albore del nostro fuoco risvegliava gli uccelli selvatici. Nulla mi commosse come quel primo clamore di vita che non si scorgeva e che correva nell'aria scura, così veloce, così lontano, prima che all'orizzonte apparisse il chiarore del giorno. In quell'ora glaciale dell'alba, mi sembrò che quel grido fuggente, portato via dalle penne di una bestia, fosse un sospiro dell'anima del mondo!
Karl diceva: - Spegnete il fuoco, ecco l'aurora. Difatti il cielo incominciava ad impallidire, e gli stormi delle anitre tracciavano lunghe macchie veloci, che in breve sparivano nel cielo. Una luce balenò nella notte: Karl aveva sparato; e i due cani si avventarono.
Allora, di minuto in minuto, ora lui, ora io, prendevamo svelti la mira, non appena sopra i canneti appariva l'ombra di una tribù volante. Pierrot e Tuffo, ansimanti e allegri ci riportavano uccelli sanguinanti, i cui occhi, qualche volta, ci rimiravano ancora.
Il giorno s'era levato, un giorno chiaro e turchino; il sole appariva in fondo alla valle e noi pensavamo di tornarcene a casa, quando due uccelli, il collo dritto e le ali distese, passarono veloci sopra le nostre teste. Uno di essi cadde quasi ai miei piedi. Era un' alzavola dal ventre d'argento. Allora, nello spazio sopra di me, una voce, una voce d'uccello gridò. Fu un lamento breve, ripetuto, straziante; e la bestia, la piccola bestia risparmiata si mise a roteare nel turchino del cielo, sopra di noi, rimirando la sua compagna morta ch'io teneva fra le mani.
Karl, in ginocchio, il fucile contro la spalla, l'occhio ardente, la spiava, nell'attesa che fosse abbastanza vicina. - Hai ucciso la femmina, - disse. - Il maschio non se ne andrà.
Difatti non se ne andava: volteggiava sempre, e si lamentava attorno a noi. Mai un gemito di sofferenza mi straziò il cuore come il richiamo desolato, come il rimprovero lamentoso di quel povero uccello perduto nello spazio.
Alle volte, esso fuggiva sotto la minaccia del fucile che seguiva il suo volo e pareva lì lì per continuare il suo cammino, solo, attraverso il cielo. Ma non vi si poteva risolvere, e subito tornava a cercare la sua compagna.
- Lascia la femmina per terra, - disse Karl - Si avvicinerà subito.
S'avvicinava infatti, incurante del pericolo, incalzato dal suo amore per la bestia ch'io avevo uccisa.
Karl sparò. Fu come se la corda che teneva sospeso l'uccello fosse stata recisa. Vidi una cosa nera piombar giù, udii fra i canneti il rumore di una caduta. E Pierrot mi riportò l'alzavola Le misi tutt'e due, già fredde, nello stesso carniere ...
E quello stesso giorno, ripartii per Parigi.

Guy de Maupassant
(Da Tutte le Novelle, traduz. di A. Fabietti e B. Dell'Amore, Edit. Bietti, Milano).

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